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CORONAVIRUS: GUERRA O NON GUERRA SARÀ LA “RESISTENZA” A SALVARCI

 

Intanto politica e comunicazione preparano la sfida decisiva

 

di

Luca Di Bonaventura

 

La domanda è facile e chiara. È la risposta a essere decisamente complicata. Siamo o non siamo “in guerra” contro un nemico tanto invisibile quanto pericoloso e micidiale? Possiamo, o no, parlare di “guerra”? Questo è l’interrogativo.

Per provare a rispondere, sempre che sia utile farlo, eviterei come prima soluzione il rifugio nella letteratura. Può gratificare l’intelletto di qualcuno, ma temo possa servire a ben poco piegare l’attualità al pensiero politico di Tucidide o di Gaio Giulio Cesare, men che meno di Hobbes o Machiavelli. Certo non escludo che, a limite, risulti consolatorio rintanarsi nelle pagine de L’arte della guerra di Sun Tzu: d’altronde è stato lui a insegnarci – già nel V secolo a.C. – che “La guerra si fonda sull’inganno”. Come dargli torto? Direi di più, come dargli torto oggi, quando sembrano sussistere tutti gli elementi tragici di una guerra.

Temo tuttavia che la questione sia più complessa.

Il tempo che ci è stato dato da vivere ci ha fatto conoscere il significato tragico, profondo e doloroso di una pandemia. Grande parte della popolazione mondiale sta vivendo   rintanata in casa. Migliaia di persone sono morte e seppellite senza la consolazione di un funerale. Donne e uomini coraggiosi combattono in prima linea ogni giorno senza sosta per salvare vite, spesso mettendo a rischio la loro. Di fronte a tutto questo come può non essere lecito affermare che “siamo in guerra”?

Eppure in guerra non siamo.

Sia ben chiaro, al cospetto della morte nessun ragionamento, neanche il più illuminato, potrà lenire il dolore per una vita umana che finisce. Qui semmai l’umile tentativo è solo di portare una giusta attenzione sul significato delle parole e sulle conseguenze che quelle parole producono quando ad esempio a usarle è un Capo di Stato.

Siamo in guerra e siamo in guerra non contro un esercito o una nazione, ma siamo in una guerra sanitaria”. Emmanuel Macron per ben due volte nel suo discorso alla nazione ha scelto di dire “siamo in guerra”. “Siamo in guerra” ha sentenziato il leader dei sovranisti italiani Matteo Salvini, che dunque in questo concorda in pieno col patriottico-nazionalista presidente francese.

Pur stando su tutt’altro fronte, anche per l’ex presidente della Bce Mario Draghi “Stiamo affrontando una guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza”. C’è poi il primo ministro dell’Albania, il socialista Edi Rama, che in un appassionato messaggio al nostro Paese – pronunciato in occasione dell’invio in Italia di personale sanitario – ha utilizzato un inequivocabile lessico evocativo: “Gli italiani, feriti dal nemico, hanno un enorme bisogno di aiuto”. E ancora: “Sicuramente non cambieremo le sorti della guerra con trenta medici e infermieri”.

Chi invece ha scientemente evitato di servirsi della parola “guerra” è la potente cancelliera Angela Merkel: “Dalla seconda guerra mondiale a oggi non c’è stata nessun’altra sfida nei confronti del nostro Paese nella quale tutto sia dipeso così tanto dalla nostra azione solidale“. Nel suo discorso ai tedeschi Mekel parla di “sfida”, non di “guerra”.

Può apparire singolare – ma non è affatto casuale – che a non avvalersi del peso della parola “guerra” sia stata una leader politica, carismatica, autorevole e influente come Angela Merkel. Sta di fatto che lei è l’unica (tra coloro che ho qui citato) ad aver vissuto sulla sua pelle gli effetti di una guerra. Mi riferisco a una donna figlia della DDR, che ha studiato fisica e chimica (anche scienziata quindi, aspetto non secondario) e che soprattutto ha sviluppato la propria identità politica in piena Guerra Fredda.

Ecco, se qui mi è consentito semplificare, possiamo dire che forse Angela Merkel in questo caso sa più degli altri di cosa sta parlando. Perché far riferimento alla guerra vuol dire parlare dell’uomo, della natura umana. E se è vero che la prima guerra dell’umanità è quella tra Caino e Abele, è altrettanto vero che tutte le guerre della storia hanno sempre visto scontrarsi – attraverso crimini orrendi e terribili – uomini contro uomini: con il coronavirus non è così. Tutte le guerre hanno come spinta iniziale ragioni politiche, economiche o religiose: con il coronavirus non è così. Tutte le guerre sono nate per un desiderio di conquista, di un’area geografica o di un potere politico costituito: con il coronavirus non è così.

Quello che può sembrare un delirio di onnipotenza, tipico di certi tiranni, è in realtà una manifestazione della natura stessa del virus. Una natura purtroppo spaventosa, senza dubbio, ma che nulla ha a che fare con l’onnipotenza. Il virus non uccide per vendetta o per sete di potere. Il virus non ha struttura ideologica. Il virus non agisce per una innata idea di supremazia.

Tutte queste mancanze, queste assenze di caratteristiche umane – in presenza delle quali oggi parliamo di nemico invisibile – sono in realtà il vero punto debole del virus. La resistenza dell’uomo che porterà alla fine della pandemia si basa solo ed esclusivamente sulla scienza, sulla conoscenza e sulla capacità evolutiva. Il genere umano resiste con organizzazione e intelligenza: il virus questo non sa farlo. Il genere umano evolve trovando soluzioni come farmaci o vaccini: il virus questo non sa farlo. Il genere umano sa unire le forze contro il nemico: il virus questo non sa farlo. Ecco perché siamo di fronte a una “sfida”, come dice Merkel, e non a una “guerra”, come dicono Macron e Salvini.

La storia ci ha mostrato, e continua a farlo, che una crisi profonda ha una conseguenza diretta sulle leadership. Le grandi crisi, o le guerre appunto, sono (quasi) sempre lo strumento vincente o la tomba di una leadership politica. A ben vedere, i sondaggi in questi ultimi due mesi evidenziano in modo più o meno evidente un calo delle forze sovraniste, in particolare in Europa: una decrescita tra il 2% e il 4% di quelle forze che più delle altre hanno mostrato un approccio populista al problema della pandemia del Covid-19. Forse, vista l’ascesa rilevata nell’ultimo anno, si tratta di una diminuzione fisiologica. In ogni caso, almeno per ora, non stiamo assistendo a una rivoluzione del consenso politico che si sarebbe potuta registrare se fossimo stati realmente in presenza di una guerra, quando cioè – come detto – vincere o perdere può significare la fine o l’ascesa al potere di un partito o di un leader.

Ma, a mio giudizio, esiste una motivazione in più che giustifica la decisione di usare il concetto di “guerra”: nel contrasto alla diffusione del coronavirus mi sembra più che evidente la scelta di mobilitare la percezione e la partecipazione ideologica del popolo. Perché questo? Perché parlare di “guerra” – e mi riferisco ora solo e soltanto all’aspetto comunicativo – predispone i cittadini a sottostare e a convivere con un sentimento di pericolo costante. Detto in altri termini, la politica ha scelto per lo più di affidarsi a un linguaggio bellico e un risultato lo ha ottenuto: è infatti antropologicamente e socialmente più facile sopportare certe restrizioni delle libertà personali se l’ordine costituito ci dice che stiamo combattendo una guerra, ovverosia se abbiamo l’apparente sensazione – scorretta e addirittura illusoria – di essere in guerra. “Ecco svelato l’inganno” potrebbe a questo punto dirci oggi Sun Tzu.

Alla fine appare oggettivo l’intreccio – decisivo e indissolubile – di due fattori: la politica e la comunicazione. E da questo punto di vista il virus appare solo una pedina di uno scacchiere molto più ampio.

La resistenza degli italiani, la nostra splendida Resistenza, come in altre epoche non troppe lontane, ci darà la forza per vincere la sfida al coronavirus. Ne sono certo. Così come sono sicuro che proprio su quella resistenza la politica e la comunicazione si giocheranno nei prossimi mesi una partita decisiva. Il risultato di quella partita deciderà chi dovrà governare il nostro Paese nei prossimi anni. A futura memoria.

 

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