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IL VIRUS DELLA CULTURA

 

 

di

Andrea Castagna

 

 

 

Le testimonianze di coloro che hanno vissuto momenti significativi della storia ci aiutano non solo a comprendere la portata dei fatti e degli eventi, ma ci consentono di riflettere anche sul ruolo che noi stessi, o sul compito, che siamo chiamati a svolgere all’interno del nostro tempo.

Vivere la storia e raccontarla rappresenta un impegno etico fondamentale verso la comunità; negli anni, ad esempio, abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le testimonianze dei superstiti della Shoah, grazie all’impegno di figure come la senatrice Liliana Segre, parole di persone che ci aiutano a comprendere la portata drammatica di quei fatti. Dinanzi al racconto di quelle sofferenze molto probabilmente, anzi sicuramente, nessuno rimpiange di non aver vissuto in prima persona quelle tremende nefandezze, ed i tempi difficili che seguirono, ma quanti, forse, si sono chiesti se la storia sia meglio viverla e raccontarla da testimoni o solo studiarla e imparare dalle altrui esperienze?

Questo è il dubbio che l’anno del Covid-19 innesta, un anno in cui, proprio come nel tempo di guerra, vengono a galla fragilità ed incertezze di un’intera società, un tempo in cui i valori e le priorità tornano improvvisamente a sconvolgere l’etica intera della comunità. Di certo vivere questa esperienza modificherà ognuno di noi, la nostra quotidianità e le nostre priorità; ci sarà anche assegnato un compito dalla storia: ricostruire e raccontare.

La pandemia ci lascerà l’eredità, ed il peso, della testimonianza ma anche, e non secondariamente, il compito di contribuire alla costruzione del futuro che abbiamo davanti, così come ha stimolato il Presidente Mattarella nel suo messaggio di fine anno.

Di questo percorso di costruzione non potrà, visto il patrimonio materiale ed immateriale del nostro paese, non essere protagonista il settore “Cultura”; ormai dall’inizio dell’era pandemica, i luoghi del “Sapere” sono stati chiusi, sollevando un dibattito molto acceso sul valore sociale dei musei, dei teatri e delle sale da concerto.

Come detto sopra, i momenti di difficoltà contribuiscono a far emergere, sovente, i limiti ed i difetti dei sistemi; nel ragionamento rispetto al mondo culturale affrontiamo due livelli di problemi: il primo è la frammentazione estrema di tutti i macro e micro-settori della cultura, il secondo riguarda la visione politica dell’approccio alla “cultura”.

Con il sostantivo femminile cultura, un po’ semplicisticamente, si tende a racchiudere nello stesso alveo l’intero mondo delle Arti, dei luoghi e dei “saperi”, generando diffidenze ed incomprensioni tra i professionisti e gli operatori dei vari settori. Dal punto di vista centrale, ministeriale, è più semplice far di tutto un calderone per poi finanziare, con esigue risorse a pioggia, gli eventi e le iniziative senza, a volte, logiche funzionali e risolutive.

È chiaro che questo modus operandi genera una quasi naturale, e primordiale, lotta di sopravvivenze non solo tra le macro – categorie ma anche tra i singoli operatori che, spesso per necessità, si devono ingegnare per trovare strade veloci che possano aprire scenari di interlocuzione. Chiaramente questo genera un dislivello importante che difficilmente premia il merito e la qualità bensì premia i più scaltri ed i più forti.

Peraltro, questi comportamenti si innestano in un contesto molto diffidente rispetto alla cultura ed al valore della cultura, intesa come conoscenza. Negli ultimi anni si è fortemente ampliata la distanza sociale all’interno della nostra comunità nazionale tra coloro che non ritengono conoscenza e cultura un Plus e coloro che pensano che invece siano un disvalore; peraltro, questo malessere è stato molto bene cavalcato sino al punto di esprimere con forza la rivalsa del non sapere o, peggio, del “tutti possono fare tutto”. Quasi con prepotenza, talvolta, gli esponenti del mondo culturale sono stati duramente attaccati perché ritenuti incapaci di comprendere le reali necessità ed i bisogni delle persone, perché “l’università della strada” insegna più di mille libri e percorsi scolastici. Questa debolezza del mondo culturale, ormai

Fonte MIBAC

considerato elitée  con accezione negativa, è venuta a galla con tutta la propria forza nell’anno del Covid -19, neppure con dati positivissimi (fino ad ottobre 2020 i dati dei contagi nei loghi della cultura era nell’ordine dello zero- virgola), gli operatori sono riusciti a convincere i responsabili decisionali di non chiudere le porte. Chi ha il dovere compiere scelte, per farlo, ha la necessità di tracciare una linea, è di tutta evidenza che all’interno di essa nessun portatore di interesse dell’industria culturale sia stato in grado di far sentire il proprio peso specifico, capacità   che evidentemente hanno avuto altri nel sensibilizzare gli interlocutori politici. Favoriti anche da una differente percezione di necessità sull’opinione pubblica.

 

L’arrivo del primo Ministro Mario Draghi porta con sé il profumo della competenza, e speriamo possa essere la fine di questa diffidenza culturale, nella speranza di poter tornare a ragionare con serietà di “cultura”. E che in primo luogo cambi anche l’approccio al ragionamento culturale.

 

Parlare, quindi, di cultura, comprendendo tutta la commistione di generi, come sopra detto, e con il sistema vittima di una frammentazione dolorosa, diventa molto complesso e non consente all’opinione pubblica di percepire con contezza i problemi.

La semplificazione delle problematiche, di cui siamo vittime assuefatte, difficilmente fa comprendere quanto lavoro, quanti lavori e quante professionalità si nascondono dietro la riuscita e la produzione di “Cultura”. Pensiamo, ad esempio, alla produzione cinematografica.

Per comprendere il numero altissimo di maestranze che si celano dietro la macchina cinematografica, basterebbe fermarsi nella lettura dei titoli di coda al termine della proiezione dei film, così come lo stesso ragionamento può essere assunto per i teatri, prosa o opera che sia. Funzionano, infatti, grazie ad una catena enorme di lavoratori, abituati ad operare all’ombra dei riflettori, ma grazie ai quali quei riflettori possono accendersi e soprattutto possono avere qualcosa da illuminare.

 

Ma sorprende anche che i numerosi appelli fatti da grandi personalità del mondo culturale, nell’anno del Covid-19, non abbiano trovato alcun riscontro oggettivo aldilà di una mera solidarietà di facciata. In primis, si può affermare, che sia ancora forte l’indifferenza figlia del senso di non indispensabilità tra la gente della cultura, problema con cui tutto il sistema culturale italiano convive ormai da molto tempo. In questo senso, la vera rivoluzione dal punto di vista politico, potrebbe essere quella di trovare la chiave per ingenerare l’esigenza “popolare” di vivere la cultura, facendo comprendere, alla più ampia porzione possibile di popolazione, la distinzione, che pure deve esistere tra i vari mondi culturali.

 

Gli amministratori potrebbero contribuire non discriminando i vari settori tra essi, non elargendo finanziamenti solo secondo una logica di rapporti, vicinanza politica o interessi più o meno forti di rappresentanti regionali. Anche perché gli operatori di ogni “universo” culturale penseranno sempre che la propria disciplina sia più importante delle altre, continuando ad alimentare una inutile lotta per dividersi risorse di per sé già esigue. Gli investimenti culturali, perché come tali andrebbero considerati e non come “costi”, sono sempre insufficienti, basati su criteri non sempre oggettivi e non sempre legati alla qualità. Educare all’esigenza della qualità, e non al “basta che si faccia qualcosa”.  Ma per essere in grado di “pesare di più”, tutti i vari mondi che sono stati confinati nell’alveo del sostantivo cultura, devono necessariamente fare uno scatto significativo in avanti, iniziando a costruire solide corporazioni, associazioni di categoria, che sappiano intelligentemente far sentire una voce. Nell’anno del covid-19, qualcosa sembra muoversi, ad esempio, nel mondo dei lavoratori dello spettacolo, quello dei service, che prima con le proteste dei bauli in piazza e poi con il tentativo di federarsi su base regionale, hanno iniziato un percorso che, si spera, possa portare ad un riconoscimento importante del ruolo all’interno dell’industria culturale. Nel maggio 2020 è stata costituita, infatti, FEDAS (federazione aziende dello spettacolo Italia) che ha iniziato un percorso ricognizione su base regionale dei lavoratori dello spettacolo, stimolando, a caduta, la nascita di altre realtà territoriali come in Abruzzo la A.R.S. (Associazione regionale service). Quest’ultima nasce con l’intento di federare le imprese regionali dello spettacolo che, ufficialmente, sono 45 associate ma sul mercato ce ne sono altre 25. Secondo una stima fatta dall’ ARS, considerando una media di 3 dipendenti per azienda e sommando le maestranze ed i lavoratori occasionali, solo in Abruzzo potrebbero essere circa 700, se non di più, le famiglie interessate dalla crisi derivata dallo stop pandemico.  L’Abruzzo, peraltro, vanta profili professionali di assoluto livello, capitanate dall’aquilana Agorà Service, un’azienda leader in Italia nell’organizzazione dei grandi eventi e spettacoli. Con queste credenziali, dunque, ci sono tutte le carte in regola per poter far sentire seriamente la propria voce, agli interlocutori politici che, dinanzi ai numeri, non possono più ignorare

 

le difficoltà di tante persone. Il mio personale augurio è anche che da questa storia anche gli altri “mondi” possano imparare la lezione, ricucendo tutte le micro-frammentazioni che sono solo utili solo ad indebolire le componenti del sistema. I piccoli interessi personali troppo spesso prevalgono sull’interesse collettivo, ed è venuto il momento di diventare adulti.

 

 

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